samarcanda e l’uzbekistan
Intraprendere un viaggio nel cuore dell’Asia Centrale coincide con il desiderio più profondo di ripercorrere la storia millenaria che ebbe il suo fulcro, se vogliamo il suo “Big Bang” nella mitica “via della seta”.
Un nome questo, che evocava una rete onirica di percorsi bilaterali, di vie tracciate dalle carovane guidate dai cammelli battriani, che partivano dalla Cina carichi della preziosa seta e arrivavano fino in occidente.
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I lunghi percorsi infestati da orde barbariche e battuti costantemente da temperature inclementi, esponevano i mercanti a indicibili difficoltà. A dorso di cammello tra le steppe e i desolati deserti giungevano poi nelle leggendarie città di Samarcanda Bukkara e Khiwa per rinfrancarsi e per scambiare le merci prima di proseguire il viaggio verso la Persia.
Nell’immaginario comune Samarcanda come le altre città dell’Uzbekistan, risuona come un mito, come una città surreale; e si colloca per antonomasia al continente perduto di Atlantide, nato dalla fantasia dei naviganti, i quali dicevano di conoscere il luogo esatto in cui era sprofondata o almeno lo credevano.
Samarcanda e l’Uzbekistan esistono da sempre! Chiuso tra le montagne è uno dei quattro paesi del mondo a non avere sbocchi sul mare, circondato a sua volta da altri paesi con le medesime caratteristiche.
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Un tempo era il Turkestan, (oggi rappresentato da un insieme di diversi Stati) popolato dai nomadi che costituivano una formidabile e duratura forma di Stato. Si spostavano per natura con le loro greggi, montando e smontando la loro casa (yurta), costruita con la pelle dei cammelli, di norma seguendo il corso del fiume. Poi l’egemonia sovietica ne inghiottì ogni forma di libertà con l’instaurazione della collettivizzazione forzata. Ogni espressione della loro cultura venne avvilita e sotto il potere comunista vennero chiuse moschee e scuole coraniche (medrese) ibernando fino al 1991 (anno in cui fu proclamata l’Indipendenza) l’Islam e tutte le altre divagazioni religiose.
L’Islam però non fu mai concepito come fanatismo religioso dal popolo uzbeko, né tanto meno sviluppò una dedizione fervida al proprio credo. Per contro i riti sciamanici dell’acqua e del fuoco diffusisi nottetempo nelle varie zone del Paese, rappresentano ancora oggi i precetti su cui si fonda la fede di queste genti e risalgono al periodo Zoroastriano. I dervisci adepti della manifestazione sufica, simboleggiano quella corrente sotterranea dell’Islam e alimentano ancora oggi le intercessioni tra terra e cielo nella loro danza rotante. Vicino a Bukkara si trova un esempio di mausoleo sufico (il più grande dell’Asia centrale) che appartiene all’ordine di Naqshbandi, il cui fondatore è qui sepolto e venerato. L’usanza diffusa tra i fedeli è quella di fare tre giri attorno alla sua tomba in senso antiorario in estasiata preghiera; così come dinanzi al grande albero fossilizzato che una leggenda racconta sia morto pressappoco nello stesso periodo del fondatore. Qui oltre a girare tre volte i fedeli accarezzano i nodi e legano alcuni nastri di seta attorno ad esso: un talismano in segno di buona sorte.
Inoltre le tigri raffigurate nella piazza Registan di Samarcanda confermano le celate correnti sciamaniche tanto adorate da Tamerlano. Grande imperatore della dinastia dei Timur, visse intorno al 1300. Fautore delle più grandi costruzioni di Samarcanda si macchiò dei più efferati crimini che la terra abbia conosciuto, al pari del suo predecessore: il mongolo Gengis Knan. Samarcanda sotto Tamerlano crebbe nello splendore dei palazzi che ancora oggi si ammirano in un trionfo di architetture nella piazza Registan. Si resta senza respiro a vederla nella sua perfetta simmetria. Le medrese e le moschee (oggi grandi bazar) si proiettano maestose nel blu intatto del cielo, avviluppate da maioliche azzurre che le rivestono completamente. Le cupole blu in una profusione di lapislazzuli azzurri e oro, si innalzano nei vari luoghi disseminati della città e paiono un dono del cielo notturno sfavillante di stelle. Sono bordate con fiori, ruote e altri motivi decorativi. Del luogo sabbioso in cui il Registan sorse, Tamerlano ne fece una piazza dove convergevano scambi commerciali e culturali. I minareti ai lati delle medrese sono anch’essi di maiolica blu ma in parte ricostruiti, a causa delle molteplici invasioni subite nel tempo. L’indubbia bellezza delle cupole e il gusto delle fine maioliche di cui è pregna Samarcanda appartengono però ad un passato che non ritrova nel presente un filo conduttore. I luoghi storici disseminati nel traffico incalzante della città, hanno come “calato il sipario” e trasmettono un senso di abbandono, orfani di un’epoca che conobbe vitalità e tradizioni. Si può solo immaginare, una volta raggiunto il lastricato della piazza, come potesse essere la frenesia e l’animato mercato con i cammelli, i cavalli e gli uomini infiorati dai mostruosi cappelli di Astrakan (lana di pecora nera) a scambiare mercanzie.
Oggi il tradizionale mercato si trova dietro la moschea di Bibi-Khanym e resta un inimitabile spettacolo dal vivo offerto da Samarcanda. Una torre di Babele piena di alimenti curiosi e da gente cordiale e affabile, dai tratti somatici molto diversi tra loro: visi mongoli, lunghi visi caucasici con occhi limpidi e chiari, visi da beduini con nasi affilati e ancora vecchi con le lunghe barbe bianche e sottili. Bisogna perdersi tra le colorate pile di carote gialle e limoni arancioni ,e come l’usanza vuole, saper accettare con la mano sul cuore un assaggio di miele di cotone cristallizzato per convincersi di quanto la natura conceda. Il pane si chiama non. E’ a forma di ruota e viene impilato nei dismessi passeggini per bambini, all’uso riadattati in modo alquanto originale, estrosi ma versatili. Le donne lo vendono esibendo un largo sorriso di denti d’oro fasciate nei loro abiti variopinti.
Se lo splendore di Samarcanda lo si deve al grande imperatore Tamerlano è pur vero che per opera dei suoi successori, altre città come Bukkara e Kwiva crebbero e si svilupparono sullo stesso esempio, conservando però a differenza di Samarcanda un’identità più fedele alle origini.
Bukkara e Kiva sorgono molto lontano da Samarcanda. Qui il deserto si contrappone alle vaste piantagioni di cotone in un’arida monocromia.
Le loro mura costruite a difesa delle tempeste di sabbia e dagli assalti dei nemici si ergono fino a toccare la linea dell’orizzonte e ricordano le fortezze di sabbia che tante volte le mani tenere dei bambini costruiscono sulla riva del mare.
Dentro le mura il passato è narrato sottoforma di leggenda dalla sapiente e giovane guida “Saudade”. Il misticismo scovato sotto forma di eresia zoroastriana pervade la parte monumentale e percorre il reticolato delle vie insinuandosi in ogni porta di legno intagliata o nel disegno di un tappeto che le donne tessono nei cortili invasi dal sole.
Il groviglio di vie che si dipana verso il centro storico mostra i sintomi evidenti di una storia oscura e impenetrabile. Bukkara e Kwiva furono per lungo tempo fortezze inespugnabili da parte degli stranieri. Fino ai primi anni dell’800, infatti furono gli Emiri e i Khan a regnare come despoti su una popolazione schiava e oppressa, e non indugiavano a macchiarsi di atti terrificanti e scellerati per affermare il loro potere e incutere terrore sui paesi vicini.. Il commercio degli schiavi persiani e curdi si svolgeva sul piazzale della Cittadella ancora all’inizio del XIX secolo come appare nelle foto dell’epoca e, le esecuzioni che avvenivano nell’attuale Cittadella di Bukkara dimostravano con quanta depravazione e disprezzo essi regnavano. Il cuore pulsante della città di Bukkara è la sua piazza Lyabi-Hauz costruita attorno ad una delle 69 vasche d’acqua che un tempo arricchivano la città. Qui all’ombra dei gelsi antichi, vecchi e giovani spossati dal caldo estivo, si raccolgono intorno alla piazza. Alcuni siedono e sorseggiano il tè, chiacchierano e ascoltano la musica di qualche improvvisata orchestrina. Gli zampilli d’acqua che orlano la vasca fanno illudere, con il loro fresco suono, ad un immediato refrigerio.
Kiva risplende quando cala la notte. Le luci penetrano nei vicoli e salgono in verticale fino alla sommità dei minareti mentre la luna come per magia, incorona le moschee orlate da lapislazzuli blu.
Per i vicoli intricati di Kiva, dentro i tradizionali portoni di olmo intagliati, si celano vecchi cortili adibiti dagli stessi proprietari a ristoranti tipici. La loro calda accoglienza apre le porte ai viaggiatori, ai quali è servita una cena indimenticabile a base di piatti locali. Seduti alla maniera turca sugli ampissimi divani, tra una portata e l’altra, si riflette dei luoghi incontrati in questo viaggio, dei suoi abitanti dai larghi sorrisi contagiosi; sulle aspettative di questo popolo che anela riscattare il proprio passato; un passato ovviamente depurato dalle oppressioni che purtroppo ancora oggi, in parte sopravvivono.