Hurrà Grigi

Quindicinale di calcio e non solo

persia: la metà del mondo

LA META’ DEL MONDO

DSC_2156

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

Il racconto del mio viaggio in Iran è dedicato in primo luogo a tutte le persone e sono davvero  tante che, con parole o con mimiche del volto hanno cercato di dissuadere la mia scelta. A loro va il mio resoconto di viaggio, alla loro inconsapevolezza  e alle loro frettolose conclusioni nel liquidarlo come un  “paese a rischio”.  Ai loro occhi sarò apparsa superficiale o estremamente imprudente ad affrontare una simile avventura, ma ho preferito soprassedere e lasciare a loro le personali considerazioni, piuttosto che esibirmi in approfondimenti politici e culturali sul paese.  Non avrei comunque abbattuto alcuna barriera mentale. “Sono pur sempre arabi, attentatori e integralisti” avrebbero sentenziato. Errore eclatante. Non venga in mente di dare dell’arabo a un iraniano. E’ un affronto inaudito. Semmai la Persia subì la dominazione araba, molto tempo dopo l’avvento delle splendide civiltà che il paese conobbe. Di origine ariana furono i fondatori dell’antica Persepoli: gli achemenidi, gli inventori della scrittura cuneiforme. Ciro il grande e Dario furono chiamati “i re dei re” e furono loro per primi  a tessere la storia persiana. Costruirono Persepoli un luogo di culto e di rito mitralico impareggiabile. Oggi dei fasti di allora, sopravvivono su una immensa spianata grandi portali, stipiti, architravi e un’immensa scalinata su cui sono raffigurati dignitari provenienti da ogni parte del mondo antico nell’atto di porgere doni al re. Ancora oggi le rovine di Persepoli impressionano per la grandiosità e per il misticismo che le pervade. Le iscrizioni in linguaggio cuneiforme, sovrastanti le gigantesche statue dalla sembianza di toro, sono pregne di mistero per chi le guarda, e inducono a decifrarne il significato. Il simbolismo espresso dalle raffigurazioni incise nella pietra, seduce e ammalia qualsiasi viaggiatore che si spinge, nonostante le altissime temperature, fino a qui. Non si sa se fosse un luogo cerimoniale o religioso, sta di fatto che ogni pietra ridonda del mito zoroastriano, diffusosi più di 2000 anni fa come religione filosofica, adoratrice del fuoco e degli elementi. Sotto un sole devastante il sito irradiava bellezza e mistero e più mi aggiravo tra le vestigia più mi sentivo trasportare nei più antichi recessi del tempo. Visitammo la necropoli dove erano sepolti i re achemenidi e con mio grande stupore notai che nella roccia era scolpita un’enorme croce. Ritrovare un simbolo cristiano in un luogo molto più antico del credo che io stessa professavo mi fece riflettere. Forse il cristianesimo aveva attinto dalla sacralità di questi luoghi ancestrali? E il fuoco zoroastriano che arde da millenni nel tempio di Yadz, una cittadina alle propaggini del deserto, non ha anch’esso riferimenti con la luce eterna, con le candele che abitualmente noi accendiamo nei luoghi di culto e nelle celebrazioni religiose? Più mi addentravo nella storia persiana più i dubbi affollavano la mia mente e la trasformavano in una selva intricata di dilemmi irrisolti.  Se guardavo fuori invece il paesaggio non aveva nulla di bello da offrire. Un deserto piatto e incandescente con una timida vegetazione rinsecchita e una foresta di fili elettrici che tagliava in due parti, del tutto indistinguibili, il mondo fuori dal finestrino. Cielo e terra si univano in una miscela color ocra. Anche le città erano una naturale prosecuzione di colore. A Yadz ci fermammo due giorni per visitare le torri del silenzio, montagne sulla cui cima si ergevano delle costruzioni simili a castelli. Anch’esse luoghi sacri zoroastriani su cui un tempo venivano abbandonati i morti  senza dar loro sepoltura, affinchè gli uccelli ne sbranassero le carni. Non si ricorreva alla cremazione né alla sepoltura perché i morti erano ritenuti impuri mentre la terra e il fuoco erano sacri e incontaminabili.

DSC_2408La temperatura che toccammo in quei giorni a Yadz fu la più calda in assoluto: cinquantadue gradi. Non c’era verso che scendesse. Nemmeno alla sera si riusciva ad avere un po’ di refrigerio: il termometro segnava una lieve flessione ma restava pur sempre ben al di sopra dei 40 gradi. Si beveva tutto il giorno: casse d’acqua e deliziose birrette analcoliche dal sapore fruttato. A causa dell’abbigliamento d’ordinanza che dovevo indossare e subire, la mia percezione di calore era di gran lunga maggiore. Pantaloni lunghi, casacca con maniche e velo sulla testa, per tutta la durata del viaggio. L’unica valvola di sfogo erano i piedi, che fin dalla partenza, avevo pensato di lasciare scoperti. Mi ero concessa però un tocco di femminilità. Avevo laccato le unghie di un verde spento in sintonia con i colori dell’abbigliamento indossato. Fui incauta e non pensai che avrei destato l’attenzione della gente, soprattutto delle donne infagottate nei neri chador; le quali non perdevano occasione per puntare lo sguardo proprio in quella direzione. A Yadz la religione è il pane quotidiano. Il 95% degli iraniani è sciita e diversamente dai sunniti hanno una gerarchia religiosa molto articolata. Dopo la rivoluzione del 1979 che portò alla caduta dello Sciah, venne introdotta da Komeini la teocrazia la quale stabiliva la nomina del capo religioso chiamato Aiattolah affiancato dai Mullah – guardiani assoluti del regime religioso e totalitario, oltre alla figura del Presidente del governo eletto direttamente dal popolo. Vi erano Mullah dappertutto, tanto da far supporre che fossero fatti in fabbrica e spediti in giro per il paese ad osservare il popolo e a far rispettare i precetti islamici.  I vicoli di Yadz sono un labirinto intricato di case color fango, moschee del venerdì e edifici storici ma la particolarità di questo luogo sono le torri del vento. Un sistema molto antico per refrigerare le case allo scopo di fronteggiare la calura estiva. Sotto le case scorrono canali sotterranei di acqua fredda che permettono all’aria calda di raffreddarsi e di mantenere un discreto refrigerio dentro la casa. Il nostro albergo si annovareva tra le case tradizionale. Una grande sala ospitava divani in legno su cui si mangiava distesi su tappeti persiani. Ai quattro lati le torri del vento soffiavano una piacevole frescura. Se all’apparenza la casa  poteva sembrare perfetta, il servizio si dimostrò davvero pessimo. Il tizio alla reception si era preso certe libertà e invece di soddisfare le nostre richieste,  ci seguiva in camera e seduto sul nostro letto, in logorroiche esternazioni, elencava i sogni della sua vita: primo tra tutti quello di lasciare il paese per andare in Canada. Quando gli chiesi di portarmi dell’acqua e di indicarmi quale fosse la scala per accedere al tetto si dileguò tra gli antri dell’hotel. Forse con la testa era già altrove!  Comunque anche senza il suo aiuto, la scala per il tetto la trovammo da soli. Era sera e la vista tanto decantata dai turisti di passaggio era ormai svanita, nel buio. Da alcune descrizioni doveva essere meravigliosa: contigui tetti ocra che in profusione si estendevano sino a congiungersi con il deserto. In assenza del panorama si sdraiammo su un comodo divano disponibile. La giornata era stata alquanto sfiancante per l’alta temperatura, alla quale non riuscivamo ad abituarci. Non ci restava altro da fare che contemplare le stelle e le cupole illuminate delle moschee, che si affacciavano, in privato solo per noi, romantiche e scenografiche,  sulla terrazza.

Nel divano accanto al nostro, due italiani di Messina avevano al seguito una guida intenta a raccontare loro, brani tratti dal viaggio di Marco Polo. Pareva un messaggero venuto da un tempo lontano, incaricato dalla storia di tramandare i racconti sulla leggendaria via della Seta. Prese poi a recitare i versi di un poeta, Hafez, molto venerato in Iran e di cui avevamo visitato giorni addietro il suo mausoleo. Quei versi, immersi nel cielo stellato si fondevano in un’armonia cosmica e conferivano alla serata un’inaspettata magia. Il giorno dopo partimmo per Isfahan. Era un lungo viaggio, ma ciò che più ci preoccupava era il caldo disumano. In auto poi il calore era insopportabile, a causa della mancanza di aria condizionata,. Il nostro driver Sasan ne evitava di proposito l’accensione per mantenere quella certa velocità. Peccato che nessuno si accorgesse della differenza. E complici le zaffate di caldo provenienti dal finestrino o le pesanti birrette alla frutta che pesavano sullo stomaco come macigni, eravamo dunque preda di un piacevole stato letargico, da cui ne uscivamo solo una volta arrivati alla meta. Ma la meta era lontana. Prima c’era il consueto appuntamento con il picnic: una vera e propria tradizione iraniana. Un tappeto e la fantasia di uno spazio aperto: tutto è fruibile e non solo gli spazi verdi. In Iran la gente si accampa dappertutto Tra un’auto e l’altra, negli spartitraffico o nelle rotonde attorno a cui il traffico esasperante si muove. Quel giorno Sasan e Layla, rispettivamente l’autista e la guida, preferirono non azzardare e scelsero un luogo più consono ai nostri gusti. Stendemmo il tappeto sotto un cipresso la cui età, sbalorditevi pure, era di ben quattromila anni. Il cipresso è un albero sacro per l’Iran. Nei disegni pittorici e tessili, negli stucchi che adornano gli edifici storici, ovunque il richiamo alla sacralità di quest’albero fuoriesce.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

Isfahan aveva tutto il fascino riportato dai libri di viaggio, e lì compresi realmente cosa volesse dire “la metà del mondo”. Un mondo che fino ad allora credevo chiuso in qualche fiaba orientale, era lì davanti a me, e rappresentava quanto di più ricco e splendente, finora i miei occhi avevano guardato. La mirabile piazza emanava bellezza, grandiosità  e opulenza. Le cupole delle moschee, risplendevano di blu intenso; quel blu che mancava al cielo, coperto da una perenne foschia giallognola. Si affacciavano sui giardini e sulle vasche zampillanti d’acqua poste al centro di quello che un tempo doveva essere il lungo viale profumato di rose. Riverberavano creando un duplice effetto di luce. Altri edifici, meno appariscenti almeno dall’esterno, erano veri e propri scrigni architettonici in cui le miniature e gli intarsi assumevano i caratteri della filigrana. Sulle colonne e sui portali delle moschee mi soffermai ai decori. Si rincorrevano lunghe fila di arabeschi, motivi floreali e calligrafici tutti in perfetta armonia. Gli archi da cui si aprivano i portali d’ingresso, si rifacevano come stile alle cavità della terra, alle grotte, da cui , capovolgendo lo sguardo, colavano decorazioni a stalattite ineguagliabili in altre parti del mondo artistico.  La fantasmagoria della piazza raggiungeva l’apice alla sera quando le fontane al centro, zampillavano alla luce dei lampioni e la vita del bazar si risvegliava.

L’ultima notte in Iran non presi sonno. Continuavano a sfilare nella mia mente, come su un nastro temporale, le immagini meravigliose del mio viaggio. Scintillanti moschee illuminavano il mio cammino e miriadi di specchi lo moltiplicavano all’infinito. Udivo incessante il sottofondo poetico narrato dalla nostra guida esplodere nella mia testa, provocandomi uno stato di beata esaltazione. Mi stavo appassionando al viaggio sempre di più, proprio ora che stava per concludersi. Era la storia dei luoghi, delle dinastie, dei grandi re che resero immortale il fascino della Persia a intrattenermi, ma era anche la storia semplice di un’amicizia nata con i nostri accompagnatori. Per questo non facevo altro che pensare a loro e alla distanza che ci avrebbe presto divisi. A loro devo l’esperienza di aver vissuto dieci giorni da iraniana e non da turista disincantata per le strade di un paese che non ha mai cessato di stupirmi. Ancora oggi, nonostante io sia lontana,  ripenso spesso all’intensità di questo viaggio incredibile.

DSC_2212

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *