Hurrà Grigi

Quindicinale di calcio e non solo

POETI D’ASSALTO UCCIDONO CABARET DRAMMATICO romanzo humouristic-noir di Claudio Braggio

ESTRATTO DAL VIDEOLIBRO…

Quando deve accadere, non ce la fai a schivarla.
Tieniti pronto se vuoi.
Là, uno sfrego al fiammifero e la fiammata s’incontra con le arruffate striscioline di carta della macchina distruggi documenti, ravvivando l’angolo in penombra occupato dal ce-stino della cartastraccia, in plastica.
Sarà questione di riflessi, intendo dire, per schivarla magari ce la puoi fare, ma dev’essere tutta quanta una que-stione di riflessi; che non ho mai avuto pronti, di mio, e quel poco che per natura mi ritrovo di quando in quando mi va di barattarlo con un sorso di grappa al Moscato.
Ops…, l’ho urtata, perché sta immersa nel buio; e mi ha quasi fatto inciampare, perché sta immobile a terra, ben distesa, in posizione supina, “nuda come la verità” aveva detto o forse aveva urlato, sì probabilmente aveva urlato che voleva da me “la nuda verità”…
Ma dove abbiamo cacciato i suoi vestiti?
Mi metto in cerca soltanto con lo sguardo, ma i bagliori che emergono fluttuanti dal cestino non mi offrono sicurez-za di quel che intravedo. Forse dovrei tagliuzzarli; tro-varli e tagliuzzarli; trovarli, tagliuzzarli e gettarli nel cestino della carta straccia.
Buona idea; peccato non averla avuta prima.
Getto nel cestino fogli scritti che raccolgono dalla scrivania ed altri ne getto e terra e sul corpo della ra-gazza disteso in modo scomposto.
La bottiglia, anche la bottiglia della grappa al Moscato quasi piena può esser altrimenti utile, perciò la colpisco con la palmo della mano facendola cadere a terra, dove il vetro spesso produce un rumore sordo e dopo rotola liberan-do una piccola parte del liquido che scivola verso il ce-stino della carta straccia in corso di deformazione.
Meglio andar via prima che l’ambiente tutto si scaldi ol-tre misura, quindi esco in strada per far parte della cor-rente di ombre che scivolano popolando all’improvviso, al-meno a me è sempre parso così, le stesse vie scure del mat-tino, quelle che per anni avevo calpestato in fretta cre-dendomi l’unico abitante, abbandonato in quel mondo a scon-tare un’ormai dimenticata condanna.
Così per l’ultima volta mi ero allontanato dal quotidiano torpore dell’ammasso di libri in cui avevo sperato potesse diventare rifugio.
Dev’essere accaduto ieri…
Mescolarmi al flusso di persone che invade il centro cit-tadino mi induce a girovagare, come sempre, senza meta.
Sì, probabilmente è stato ieri, anche se lo ricordo come se fosse avvenuto tanto tempo fa.
Girovagare…
Senza appuntamenti o vere, necessarie commissioni da sbrigare.
Adesso sono quasi certo che dev’essere stato ieri verso l’imbrunire che ho avuto la ventura di assistere alla na-scita di un’idea; sfuggente perché confusa tra ombre fret-tolose e ben ferme chiacchiere sportive e, s’intende, non si trattava certamente di un’idea eccezionale, insomma di quelle che possono sconvolgere un’esistenza o addirittura i destini di una comunità.
Era comunque un’idea e da queste parti non accade quasi mai, anzi potrei dire che non l’ho mai visto accadere, per-ché tra questa gente abituata a tutti i tipi di nebbia, che bada al proprio ed ogni giorno sta bene attenta a farne en-trare più di quelli che sono costretti a spendere, queste cosiddette idee non hanno un grande mercato.
Coraggio, interrompete il passo svelto di qualche passan-te se proprio volete appagare la vostra curiosità ed inter-rogatelo per sapere perché nessuno vuol perdere un poco di tempo a tirar su un “mercato ambulante delle idee”. Vi prenderete dritta sulla faccia una zaffata d’aglio e acciu-ghe con frettolose spiegazioni sull’impossibilità di guada-gnarci in fretta; e poi che è troppo complicato organizzar-lo, perché bisognerebbe far domanda al Sindaco, iscriversi alla Camera di Commercio, quindi trovare una piazza da sot-trarre al parcheggio delle automobili almeno una volta la settimana, magari recintarla, allestire dei banchetti, ri-chiamare molta gente e convincere tutti quanti ad interpre-tare uno dei ruoli che esige il mercato, obbligandoli a farlo in modo spontaneo, per dar vita alla festosa confu-sione da sagra paesana che ti avvolge, ti stordisce carez-zandoti gli occhi e le orecchie in quella falsamente pacata attesa di sapere come sia fatto l’interno del tuo portafo-gli.
Mica facile.
E poi occorre capire bene in quale tipo di contenitori infilarle queste benedette idee, perché quelle poche volte che si fanno acchiappare sgusciano via all’improvviso sci-volando fra le dita rattrappite dalla noia, ma che si agi-tano molto tentando di afferrarle.
Maledette!
Sembra proprio che si divertano un mondo a sgattaiolare fra le pieghe dure dei pensieri quotidiani e tu devi affer-rarle con decisione e cacciarle subito subito dentro dei contenitori, pressandole un poco e badando ad impedire loro di gridare aiuto, anche se puoi star sicuro che non si fa mai vivo nessuno, come quando scattano quegli insistenti allarmi dei negozi.
Cominciai a fendere in senso inverso una moltitudine di corpi che poco dopo ebbero anche volti da spettatori all’uscita da un cinema o da una fiera, ed avevo un bel farmi le mie ragioni domandando permesso, assumendo atteg-giamenti veementi, conquistando passo dopo passo l’affrancamento dalla progenie di curiosi attratta da qual-che fatto accaduto alle mie spalle.
E queste maledettissime idee che mi tormentano col loro solo ricordo e perciò vorrei averle tra le mani, per strin-gerle una ad una, sino a farle soffocare.
Non mi voltai, procedendo controcorrente senza interrom-pere il flusso dei miei pensieri.
Provo a riflettere…
Queste cosiddette idee, somigliano a dei neonati…
Non trovate?
Sono così piccole… e raggrinzite… frignanti; dai tratti così eguali che vorresti mettere subito un segno alla tua, scegliendo non già quella che vorrebbero attribuirti, bensì quell’altra che sembra volerti subito appagare con un poco di attenzione da scambiare in cuor tuo per riconoscenza.
Deviando per una via tranquilla mi trovai infine in una piazzetta semideserta con i tavolini della rinomata gelate-ria artigianale, o forse erano del bar a fianco, incorni-ciati tra il gazebo imbandierato di un’associazione per la salvaguardia del comune senso del pudore lì intenta a rac-cogliere firme, e l’edicola circondata da una masnada di ragazzini indaffarati, chi a distrarre il gestore zoppo e ingobbito, chi a sottrarre gli oggetti in regalo con le ri-viste senza neppure sfogliarle.
Proprio al centro s’imponeva l’obelisco memoria di dimen-ticate guerre su cui sguardo e mente presto svettarono, predisponendomi all’incontro con la malaugurata Idea di cui vi stavo raccontando poco fa.
Fu proprio lì che accadde, quand’ero seduto alla base dell’obelisco, avendo trovato un posto tranquillo incasto-nato fra un punk di mezz’età, tutt’intento a passarsi il filo interdentale un sorriso poco rassicurante, e un sedi-cente promotore finanziario dedito all’usura, che ridac-chiava sfogliando un album con ritagli di giornale dei suoi processi.
Comunque, quel tenero batuffolino di cui vi stavo raccon-tando si fece un breve periodo di gestazione ed uscì fuori ridacchiando e sarebbe svanito dietro l’angolo se un tizio, bello vispo anche se privo di titoli accademici appropria-ti, non l’avesse afferrato per la coda.
Veramente non posso dire che fosse la coda…
Che fosse proprio la coda…
E non sono certo che le idee ne abbiano una e che possie-dano un sesso o provino sentimenti come odio e amore, gioia e dolore e tutti quegli altri che ci fanno impazzire quando dobbiamo trovare una rima squillante per un epitalàmio o un epitaffio oppure farci avanti con una bella donna.
Che cosa volete, mi son fatto prendere dall’euforia per la novità e non ho riflettuto, attratto da quell’occasione così insolita da avvincere riscaldando la curiosità e fors’anche promettendo di ridurre la noia della lunga gior-nata piovigginosa.
Poco dopo eravamo ben in tre a tenerla ferma, a minac-ciarla, a darle qualche pugno e molti calci soltanto per farle capire che con noi non poteva permettersi di fare la furba e che le sarebbe stato più conveniente accettare un dialogo sereno ed aperto.
Uno dei miei due compagni d’avventura glielo cantava chiaro che la violenza è come la musica, che sono linguaggi internazionali, che aiutano la comprensione e favoriscono la creazione di gruppi e belle brigate colorate, di squadre e squadroni, di assembramenti sediziosi e mucchi selvaggi, insomma di associazioni, che siano culturali o a delinque-re.
Lei pareva neppure prestarci attenzione e preferiva di-battersi, oooh se si dibatteva (e faceva dibattere anche noi seppur l’assecondavamo con malavoglia), scalciando come una forsennata e cacciando delle urla che avrebbero infa-stidito un disc-jokej e noi giù a menar botte con quella sovrabbondante buona volontà propria dei neofiti.
Quell’idea era terribile e ve lo dico subito per portarvi dalla nostra ed evitarvi la formazione di pensieri scorret-ti sulla buona fede di tali azioni, violente solamente in apparenza.
Lasciandola fare ci saremmo trovati impegnati ad organiz-zare delle serate conviviali per ospiti con palati cultu-ralmente raffinati in cui fra un piatto e l’altro, innaf-fiati da vinelli locali di particolare pregio, sarebbero state servite anche delle calde poesie.
Nessuna lettura!
Bensì una prova di recitazione, anzi di interpretazione da parte di una giovane attrice di talento dalle procaci forme, con l’obbligatoria presenza dell’autore almeno fino alle sue prime lacrime; ricevuta fiscale alla cassa…
Sirene di polizia o d’ambulanze, seppur lontane, ci scos-sero i nervi.
Dimenticandoci d’esser divenuti in buona sostanza gruppo, compagine, corrente di pensiero litigammo tra noi all’inizio in modo raffinato sciabolando offensive citazio-ni d’autori morti e quindi passammo con rari indugi a gros-solani lanci di oggetti recuperati in ogni dove.
Altre sirene, o forse sirene d’altro genere attirarono fuori luogo i pochi abitatori della piazzetta, che si al-lontanarono con passi frettolosi, distraendoci.
Subdolamente l’idea ne profittò per sfuggirci.
Quando ce ne accorgemmo subito infierimmo senza regole, né rispetto della metrica l’uno contro l’altro con sagaci battute di spirito manifestando odio d’ogni singolo verso gli altri associati, ma fummo lesti ad indossare la livrea degli opportunisti e ci ricomponemmo in gruppo ideale, com-pagine eclettica, nuova corrente poetica.
Sentivamo di non godere più d’alcuna prospettiva, perché ormai eravamo privi anche della più piccola originale idea, e quella che avevamo visto nascere era fuggita.
Con sguardi d’intesa ci accordammo ed il punk di mezz’età ci fece amorevolmente passare tra le mani a me un coltello a serramanico più grande di quelli da collezione che si trovano nelle confezioni a dispense ed al truffatore un ti-rapugni lucente, nuovo nuovo e di fattura ricercata, con incisioni che s’avvicinano molto a quelle delle teiere in-glesi fine ottocento in vendita alle aste televisive.
Il generoso amico dapprima stimò sufficienti per lui i metallici anelli che adornavamo soprattutto la mano sini-stra, ma poi preferì sfilarsi dal collo la catena con ad un capo un grosso lucchetto che prese a far roteare producendo un refolo di vento dal rumore ovattato.
In questo modo ci sentimmo meno imbarazzati nel chiedere ai passanti se l’avevano vista e se non avevano nulla in contrario a farsi perquisire.
Nessun volontario si fece avanti.
Ci fu qualche fuggitivo.
Alcuni urlanti.
Una tipa si mise a piangere.
Uno si addossò alla parete con i pantaloni che piano pia-no s’inumidivano.
Non era uno bello spettacolo, ma fu questo a infastidir-ci, quanto piuttosto un rinnovato ed insistente rumore di sirene in avvicinamento.
Il punk di mezz’età annuso l’aria come ho visto fare agli Apache anni Sessanta nei film western americani e senza usare verbi all’infinito, ci consigliò d’allontanarci in cerca di più verdi praterie— (omissis)

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