passeggiata al faro
A marzo, nel porticciolo di Vulcano Gelso, l’estate non è ancora arrivata. Il vento soffia freddo e rabbioso trattenendo a sè l’inverno non ancora del tutto concluso. Solleva con forza le onde, che inquiete si schiantano con fragore contro il molo. Spruzzi di salsedine si posano sui muri scrostati dei locali che attendono, dormienti, una rinfrescata di bianco prima del rintocco del periodo estivo. Sui sassi neri della spiaggia lavica, l’umidità salmastra si asciuga al sole in una lunga striatura bianca di cristalli di sale. Il molo è un ricovero di barche e di gomitoli di reti , segno che i pescatori arriveranno, sul far della sera e come ogni sera, a riprendere il mare. In giro nessuno, ad eccezione di una colonia di gatti che inaspettatamente vedo corrermi incontro festosi. Forse intravedono in me colei che li sfamerà, come d’abitudine fanno i pescatori al ritorno dalla notte in alto mare. Miagolano spalancando le fauci avide di pesce. Tra le mie gambe si strusciano fingendo amicizia, celando però un calcolato tornaconto. Ma hanno riposto male la loro fiducia perché non ho nulla con me di commestibile. Ciò che mi ha portato fin qui è la passeggiata fino al faro vecchio che ho intravisto in lontananza, percorrendo in macchina i tornanti dell’isola: ritto sul promontorio di scogli. Mi incammino e i gatti in coda fanno altrettanto. Nel cielo stormi di gabbiani vorticano in cerca di cibo abbassandosi di quota sino a pelo d’acqua. Gatti e gabbiani all’unisono lanciano il loro grido nel vento che, unendosi ai rumori della risacca, riempie lo spazio di voci. La colonia felina zampettando mi scorta fino al vecchio faro, che giace ormai abbandonato all’estremità della spiaggia. Ha vetri rotti e scritte sui muri, schiaffeggiato per destino dall’onda e dall’uomo. Sono praticamente arrivata. Mi siedo su uno scoglio con i gatti intorno e i gabbiani poco distanti. Gli uni prendono a ravviarsi il pelo, gli altri a scrutare il mare. Convivono, non si combattono, certi che quando i pescatori torneranno ci sarà pesce in abbondanza per tutti. Più li guardo e più mi convinco che l’amicizia impossibile, narrata da Sepulveda, che dal luogo sembra aver preso spunto, sia fattibile quantomeno in forma di tolleranza. Entrambi imparentati con il mare che li sostiene, li sfama. Il mare che cattura, distrae, stupisce; che distoglie da ogni altro pensiero sino a farmi scordare le ragioni del perché sono qui. Se sia il faro la meta o solo il pretesto per contemplare questo meraviglioso mediterraneo, fonte di inesauribile incanto. Il mare dalle infinite storie e dalle immani tragedie, il mare dei popoli e dei naviganti, su cui facevano rotta le civiltà del passato con navi cariche di giare, anfore e merci preziose, lo stesso mare che non conosce i lacci del tempo e su cui oggi navigano e sbarcano carichi di umana disperazione. Il mare funesto e il mare generoso, che strappa e restituisce indescrivibili tesori dalle sue profondità. Il mare che divide e riconcilia paesi e popoli, il mare che accoglie, il mare che inquieta e minaccia. Ma il mare è molto di più e io mi perdo a osservarlo qui in questo porticciolo sperduto, in compagnia dei gatti e dei gabbiani, immaginando quante storie, nel corso del tempo ha racchiuso, protetto e visto sciogliersi nella spuma di un’onda.
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