Giant Sand: 30 anni di desert rock
Continua a leggere l'articolo dopo il banner
Pensi ai Giant Sand e immediatamente la mente vola al deserto americano, a melodie lente e perfette per il clima immobile del Texas, a slide guitars lancinanti e ad una voce (quella di Howe Gelb) profonda e ipnotica come poche.
Si sono formati nel 1985 a Tucson e per festeggiare il trentennale della loro carriera – nel corso della quale hanno letteralmente creato un genere, definito desert rock, che è un un mix di country, stoner e slow-core, conditi in salsa lo-fi – hanno dato alle stampe “Heartbreak pass”, loro ventunesimo album in studio ed autentico capolavoro.
A colpire, prima dell’ascolto, è il numero e la qualità dei musicisti che vi hanno preso parte: oltre ai dieci elementi della band, sono infatti intervenuti Jason Lytle dei Grandaddy, Steve Shelley (già nei Sonic Youth), Grant-Lee Phillips (ex front-man dei Gran Lee Philips), Maggie Bjorklund (già collaboratrice di Jack White), John Parish, ma anche i nostri Vinicio Capossela e Sacri Cuori (folkband romagnola che da tempo collabora, fra gli altri, con Howe Gelb).
Continua a leggere l'articolo dopo il banner
Colpiscono, poi, le note di copertina, in cui, in maniera un po’ beffarda Gelb spiega che si tratta di un disco lungo perché è composto di “tre parti che raccontano il vissuto di due vite da trent’anni ciascuna: non fate i conti, tanto non tornano. Le prime cose sono spuntate a Bruxelles, qualche arco è stato messo in Grecia, un coro nel Canada, un muro di suono a Berlino, un po’ d’impasto in Italia, un colpo di chitarra a Nashville, un quoziente vocale in Croazia, due linee di pentagramma in Olanda, il portale di Jason a Portland… il resto è cresciuto lentamente a Tucson ma l’insieme è stato mixato in un unico luogo, la briosa Bristol”.
E veniamo all’ascolto: personalmente ho gridato al miracolo, per la qualità assoluta dei brani (sia per struttura compositiva che per i testi) che per la produzione.
La prima parte “trasmette un senso di abbandono rumoroso e fortunato, come se non ci fosse una scelta” e si apre con l’acustica e zoppicante “Heaventually” (in cui il recitato è farina del sacco di Capossela) e prosegue con il rock’n’roll (a tratti noise) di “Texting feist” (da brividi il solo di chitarra), il boogie “Hurtin’ habit” e la tesissima e cupa “Transponder”.
“La seconda parte è più pensierosa, lenta ma diretta, vicino a quello che oggi, in molti, chiamano Americana” e ne fanno parte “Song so wrong” con il suo brioso finale messicano, la classica “Every now and then”, la riverberata “Man on a string”, “Home sweat home” e i suoi ritmi da saloon e l’intimistica “Eye opening”.
“La terza parte invece è il cuore in costante agitazione a causa di un continuo oltrepassare l’oceano, la benedetta maledizione dell’indie-transponder” e ne fanno parte “Pen to paper”, la musicale “Bitter suite” e “Gypsy candle”, canzoni da pianoforte, la cavernosa “House in order”, la swingante ed eterea “Done” e la conclusiva “Forever and always”, in cui Gelb duetta con la figlia dodicenne su un sottofondo che pare riprodurre il rumore dell’Oceano.
Indubbiamente, ad oggi, il disco dell’anno.