Grazie Alessandro di Pier Luigi Cavalchini
Non so se sarà stabile, anche solo per un po’ di anni, la permanenza di Alessandro Gazzi e della sua famiglia qui ad Alessandria ma una cosa è certa: un pochino di questa nebbiolina invernale, di queste estati afose, la riservatezza e la tranquillità da centro di provincia lo hanno portato ad affezionarsi ad una città, ad un territorio che non è suo, a gente solitamente chiusa e poco propensa alle chiacchiere, ad un agglomerato di edifici un tempo sontuosi ed armonici, con mura, canali, ponti e ponticelli, ora – purtroppo – abbastanza ordinari. Una affezione (non una malattia) l’”alessandrinite” che ti sfiora la pelle, prima, e poi ti entra dentro fin nel midollo.
Un centro urbano – Alessandria – che vive di ricordi, che sa tutto sulla formazione che pareggiò con il Napoli o il Genoa in serie A e che riuscì a battere l’Internazionale 60 annui fa, ma che rimuove lustri di anonimato in quarta e terza serie. Che non ha più formazioni di rango nel basket o nella pallavolo e…non ha nemmeno più un Teatro e un Museo. Ha luoghi dove si fanno cose teatrali e si presentano mostre ma, come per lo sport, questa città merita di più e…chissà che proprio la spinta dei “Grigi” dia il giusto slancio.
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Alessandro Gazzi queste cose le sa, vede qual è la realtà della città e, di sicuro, si sarà domandato mille volte se il pubblico del “Moccagatta” è lo stesso che può incrociare per strada, che può avere vicino ad un semaforo o a prendere un caffè. Quasi una trasformazione da dottor Jekyll a Mister Hyde che tutti i non alessandrini notano (quando siamo in trasferta o quando vengono al “Mocca”) e che porta vivacità e speranza in persone altrimenti compassate e schive. E questa trasformazione avviene in tutte le occasioni in cui si ha la possibilità di parlare dei “Grigi”, nei bar – certamente – ma anche in ufficio, in banca, a scuola, dal barbiere o dalla pettinatrice, al supermercato o alla stazione di benzina. Il “grigio” è il colore di Alessandria e la stessa città trova nei “Grigi” un’occasione di affermazione e riscatto. Mai forte come in quest’anno miracoloso. Ma torniamo a Gazzi.
Un peccato averlo avuto qui a fine carriera; nei suoi quattro anni finali ha disputato una novantina di partite con la casacca grigia, con i due iniziali (dal 2017 al 2019) con un impegno continuativo e una funzione di equilibrio e tranquillità in mezzo al campo (non una “leadership” ma piuttosto una funzione “facilitatrice”) che è stata sempre una sua caratteristica. Gli ultimi due in funzione di supporto ma, in realtà, sempre presente in campo con il suo carisma. Solo due espulsioni (negli anni del Palermo) durante la sua carriera e un numero limitatissimo di cartellini gialli, tenendo conto che ha giocato più di 500 partite ufficiali tra A, B e C.
Il suo impatto con il pubblico di Alessandria è stato semplice e diretto. Alessandro non si tira indietro quando deve combattere a centro campo, non dà mai via la palla a vanvera e cerca sempre la soluzione migliore per far ripartire la squadra. Suggerisce spesso, con garbo, i passaggi e le possibilità di schema ai compagni, non alza mai la voce. E il pubblico questo lo vede e lo apprezza. Gli sono bastate due o tre partite per conquistare lo stadio, prima ancora di essere considerato “il capitano” lo è diventato di fatto con il suo comportamento, con la sua tecnica, con la sua diplomazia . Con tutti gli allenatori con cui è venuto a contatto (da Scazzola a Gregucci fino a Longo) ha instaurato rapporti corretti e costruttivi che gli hanno permesso di ottenere il massimo possibile tutte le volte che veniva impiegato. Gregucci ha iniziato a farlo giocare meno e, forse, questo lo ha segnato. Meglio è andata con Longo che, ben sapendo quali erano le sue caratteristiche ed i suoi tempi di gioco, lo ha impiegato per lunghi spezzoni in partite delicate in cui era necessario saper giocare nello stretto, muoversi con intelligenza e saper impostare anche se pressati. E questo ha fatto.
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Ora ha coronato quattro anni di impegno sportivo con il massimo riconoscimento della categoria: la promozione. Può dirsi felice di quanto ha ottenuto, soprattutto per come è riuscito a concretizzarlo. Contribuendo a migliorare il clima nello “spogliatoio”, aiutando ad inserire al meglio i più giovani, interpretando nel modo migliore il “Moreno Longo pensiero”. Ora “smette il calcio giocato” ed inizia ad essere uno di noi, uno della famiglia grigia che ha ben presente le responsabilità di questo e dei prossimi anni in serie cadetta. Una serie B ben conosciuta da Gazzi che, pure per questo suo contributo esperienziale, diventerà prezioso anche ai bordi del campo di gioco. Un grosso grazie, quindi, ad Alessandro, a tutta la sua famiglia, ai suoi amici e al suo particolare carattere che lo porta a sensibilità culturali molto apprezzate nella città natale di Umberto Eco. Infatti …la chiusura la lasciamo ad un suo pezzo tratto da “Prima di cena” (1) . Grazie ancora…
“Calciavo da solo mentre mamma cucinava e papà si riposava. Calciavo e calciavo. Rebecca era sul divano con le bambole, anche lei rivolta al suo mondo interiore. Io intanto colpivo la palla di collo, collo interno, esterno, punta, tacco e con tutte le parti sconosciute del piede sinistro. Calciavo e calciavo. La gente applaudiva, i tifosi cantavano. Sentivo la pallina deformarsi al contatto con il piede, come se uno slow motion temporaneo mi inchiodasse al piacere della fusione fugace di pelle e spugna. E apprendevo, al contatto, la differenza tra le superfici del mio piede, che esploravo come un astronauta in una galassia lontana. Calciavo e calciavo in quella porta azzardata, tiravo dentro, fuori, dentro e ancora dentro. Dribblavo ostacoli inesistenti. Calciavo in una e nell’altra dimensione, all’incrocio o all’angolino. Centrale, sulla destra e alla sinistra. E ogni volta che centravo la porta e il pallone oltrepassava la mia linea invisibile, il lenzuolo che faceva da rete vibrava. Mi sembrava tutto mistico, il gol mi procurava un brivido che si espandeva anche sul lenzuolo usato: galleggiava nell’aria, fluttuava in pieghe dalle linee dolci, che rimanevano impresse nel mio quadro dopaminico. Scansionavo ogni piccola deformazione della rete, ogni tratto alterato, anche quello meno appariscente. Esultavo sottovoce tra le urla gioiose dei tifosi mentre il televisore proiettava un telegiornale e la mia mente sfarfallava confusa in diapositive rossonere riflesse da una fantasia di ordine superiore. E poi, come insoddisfatto dal protrarsi di una gioia ormai svanita, ritornavo a calciare. Perdersi in quei quindici, venti minuti prima di cena. Poi, dopo, avevo la possibilità di giocare il derby contro l’Inter: papà a difendere la mia porta dei sogni, e io davanti alla sedia in corridoio. Ma quella era un’altra dimensione.”
https://www.alessandrogazzi.it/index.php/blog-ale/item/421-prima-di-cena